FRANCESCO GUCCINI, RUVIDA DOLCEZZA DI UN ARTIGIANO DELLA PAROLA

Di Gino Morabito

Parafrasando Giorgio Gaber, il suo grande talento si è visto nella capacità di scrivere ben tredici strofe su una locomotiva. E possiamo essere tutti d’accordo con “Il signor G” quando consigliò ai bolognesi di tenerselo stretto. Parole belle, interessanti, complesse – quelle di Francesco Guccini – che tessono l’intrigante trama narrativa di un autore tra i più significativi del nostro tempo.

Che siano canzoni da intorto e da osteria, è sempre meno “maestrone” e più maestro di vita.

«Ho cercato di metterci dentro ciò in cui credo, nonostante questa voce che ormai mi ritrovo. Le canzoni sono utili se servono a qualcosa, se parlano della nostra vita, di personaggi veri.»

Le note di viaggio di uno straordinario percorso artistico dove bisogna andare indietro negli anni, a fatti e vicende molto personali.

«Abitavo ancora a Bologna a casa dei miei genitori. Ricordo la copertina del “Time”, la rivista americana, che recitava “God is dead”, si parlava dei filosofi che teorizzavano la morte di Dio. Mi viene anche in mente l’“Urlo”, la poesia di Allen Ginsberg: “Ho visto le migliori menti della mia generazione…”. È così che è venuta fuori Dio è morto. Di solito, quando iniziavo una canzone, già nel pomeriggio la finivo. Le tredici strofe de “La locomotiva” le ho scritte tutte in una sola giornata.»

Lo sguardo nostalgico nei confronti della sua Teresa, che s’incamminava per il mondo “con la schiena dritta”.

«Mi alzavo al pomeriggio, perché andavo a letto molto tardi la sera. L’asilo era verso le quattro, a poca distanza da dove abitavamo, in “via Paolo Fabbri”. Prima passavo dall’edicola a comprare i giornali, poi prendevo Teresa all’asilo e insieme andavamo a mangiare qualcosa. “Culodritto” è dedicata a quella bambina che era, con il futuro che le si spalancava davanti, con tutto ancora da scoprire e da sbagliare. È difficile raccontare le emozioni di una canzone.»

La musica comincia nell’estate 1957, quando il padre di un amico, che possedeva due cinema a Modena, invitò tutto il gruppo a vedere un film.

«Vedemmo un film dove una band suonava in un campo scout femminile: cinque ragazzi e tremila ragazze. All’uscita ci dicemmo: “Mettiamo su un complesso pure noi!”. Victor Sogliani, il futuro fondatore dell’Equipe 84, scelse il sax, che non aveva mai suonato in vita sua. Un altro affittò un contrabbasso. Pier, che era il più dovizioso di denaro, volle la batteria. Io comprai una chitarra con le cinquemila lire che mi passò mia nonna Amabilia.»

Quella che viviamo è un’epoca totalmente diversa rispetto al passato, un mondo dove è tutto cambiato, si comunica in digitale.

«Sono nato nel Quaranta. All’epoca si comunicava con le cartoline postali, in casi eccezionali con i telegrammi. Il primo telefono che ho avuto in casa era un Duplex. Ci si metteva d’accordo con un’altra famiglia e si aveva lo stesso numero in comune: per cui, se i tuoi vicini lo usavano, tu non potevi parlare. Ho avuto il Duplex a diciassette anni, oggi ai ragazzini viene regalato il loro primo cellulare che non ne hanno nemmeno la metà.»

Una nuova generazione di ragazzi, giovani, adulti che si esprimono quasi esclusivamente con emoticon e faccine, a dispetto di un italiano altro, poetico, dal lessico ricco e lo stile immaginifico.

«Il mio è un italiano particolare. Quando scrivo, ad esempio – e non mi riferisco alle canzoni ma ai miei racconti – uso volutamente un linguaggio infarcito di termini dialettali, non estremamente forbito. D’altra parte, la questione dell’educazione dei giovani è un fatto grave. È il problema della scuola, con delle lacune che partono dalle elementari e si trascinano fino all’università.»

Un diploma di maestro elementare, due anni alla Gazzetta di Modena e un’intervista con Domenico Modugno ancora vivida nella memoria.

«Me ne vergogno ancora adesso. Ero giovane e saputello: lo attaccai; feci, come dicono a Bologna, lo sborone. Non pensavo affatto che la musica potesse essere il mio mestiere.»

“Tu canti nella strada frasi a cui nessuno bada, il domani come tutto se ne andrà: ti guardi nelle mani e stringi il vuoto, se guardi nelle tasche troverai gli spiccioli che ieri non avevi, ma il tempo andato non ritornerà”. Il rapporto con il tempo di un “adolescente” classe 1940.

«Non mi sentirei nemmeno vecchio, solo che il peso degli anni si fa sentire. Ammesso che un tempo fossi agile, non sono più agile come una volta. Non sto male. Ho acciacchi che prima non avevo, però la mente funziona ancora. Eccome.»

Bisogna amare incondizionatamente ciò che si vive: gli atti, i gesti, le scelte, gli entusiasmi, i tonfi.

«Dipende dalle persone, dalle situazioni, dagli oggetti di cui si parla. Ad esempio, sono appassionato di certe cose e di altre no. Amo leggere, anche se purtroppo non riesco più a farlo. Ascolto gli audiolibri, ma non è lo stesso. Sono appassionato di cibo, non sono mai stato un ghiottone, però mi piace mangiare bene quando posso e, ogni tanto, bevo qualche bicchiere.»

I cambiamenti, le evoluzioni, la gente che c’è adesso e quella che c’era allora. Resta l’umana convinzione dell’unico animale che sa di dover morire, ma da giovane è convinto di essere immortale.

«A ottantaquattro anni però si comincia ad avere qualche dubbio (ride, ndr). Quello che ho più paura di perdere è l’odore della donna che amo.»

Dedico quest’intervista a mio padre. Ai nostri silenzi. Per tutte le volte che avremmo voluto rivolgerci parole belle, partecipate, amorevoli. E non ce le siamo dette.

www.musicaintorno.it

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